La Chiesa della Colonnella come appariva fino agli anni Quaranta. Olio di Guido Fabbri

Questa festa si svolge tuttora presso la chiesa della Colonnella ma in modo completamente diverso. Quando andavo con la mia mamma e imboccavamo il vialetto alberato sulla sinistra della via Flaminia che porta direttamente verso questa chiesa, lungo il vialetto ci trovavamo tante bancarelle che vendevano fichi secchi e quelli con la mandorla dentro costavano di più; oltre ai fichi avevano anche dolciumi, carruba e liquirizia che a me piaceva molto. Questa festa, che i riminesi chiamavano della Madonna dei fichi, era molto sentita.

La sera della vigilia si facevano le focheracce come per la vigilia della festa di San Giuseppe. Ma in questa festa vi era anche una pagina nera: ricordo che i contadini venivano dalle campagna con dei ragazzi (propri figli), e contrattavano con altri contadini che prendevano questi ragazzi come garzoni; ma prima di prenderli in consegna gli facevano saltare un fosso e li facevano correre per vedere l’agilità, poi prendevano quello scelto e facevano il contratto come quando si acquista una bestia. Questo contratto in seguito fu proibito. Certo non era come la tratta dei neri ma era sempre una cosa molto brutta.

Il contratto aveva la durata di un anno e se la sua famiglia non era soddisfatta del trattamento non lo rinnovavano. Ma siccome le famiglie dei ragazzi erano indigenti (i casanoli), molti contratti si rinnovavano se il padrone era rimasto soddisfatto.

Mi ricordo che i miei parenti di Sant’Ermete, in quegli anni in cui andavo in campagna, avevano un garzone che si chiamava Giovanni (Gianni). La sua famiglia distava dal podere dei miei parenti poco più di un chilometro, così la domenica andava a casa sua. La sua famiglia non era casanola, ma lavorava a mezzadria su un podere che non era molto grande e i componenti erano numerosi (18 persone, tre fratelli con le mogli e i figli), perciò erano costretti a lavorare anche in altri poderi.

Il garzone Gianni era buono e bravo e un giorno mi portò a trovare la sua famiglia. Così conobbi i suoi genitori e gli zii. Si vede che Gianni li aveva avvisati perché avevano preparato la ciambella e avevano messo sul tavolo una bottiglia di vino dolce.

La sera tornammo prima che facesse notte, ma prima di partire ringraziai i contadini per l’accoglienza fattami e le donne vollero baciarmi. Gianni aveva trovato un nido di passeri e li aveva messi in una gabbietta, e così tornammo a casa anche con questi. Quel giorno ero felice.

Quei passeri mi diedero molto da fare, avevano sempre fame e dovevo impastare un po’ di polenta e imboccarli, ma lo zio Giuseppe, quando i passeri furono in grado di volare, mi disse che non li avrei potuti portare a Rimini e mi disse di metterli in libertà. Io lo feci a malincuore ma capii che era l’unica soluzione.

Gianni era proprio un vero amico, ma avevo un altro amico: un grosso cane molto vecchio, col pelo corto bianco, si chiamava Leone e ormai non aveva più nemmeno la forza di abbaiare. Io mi ero affezionato a questo animale e mi seguiva ovunque andassi; gli davano da mangiare la piada fatta con polenta per lui. Ma io prendevo il pane che era secco e per mangiarlo bisognava bagnarlo nell’acqua; ne prendevo sempre un pezzo in più e lo portavo al cane di nascosto e per questo il cane si era affezionato a me. Un giorno gliene diedi un pezzo grosso, ne mangiò un po’ e quello che rimase lo andò a seppellire; rimasi meravigliato e lo dissi a Gianni che disse: “Quando il cane avrà fame lo andrà a prendere”.

Tante volte pensando a mia mamma sola a Rimini mi venivano le lacrime agli occhi e il cane mi guardava, sembrava capisse il mio dolore e mi veniva a leccare le mani e il viso. Quando l’anno dopo tornai in campagna non c’era più Gianni, e neanche il cane; il suo posto l’aveva occupato un bel cane a pelo lungo, era bianco con larghe chiazze marrone chiaro e lo chiamavano Stoc.

Domandai di Leone, mi dissero che soffriva molto e lo avevano dovuto ammazzare col fucile. Poi seppi che Gianni era andato a Roma a lavorare, chiamato da un parente.